Thursday 19 April 2012

Chi è l'uomo perché te ne ricordi


«Carissimi,

mi piacque a tal punto, che otto anni fa, quando lasciai la parrocchia, quella frase volli segnarla sul ricordino d’addio.

E’ il versetto sedici del capitolo quarantanove di Isaia.

“Non ti dimenticherò mai. – dice il Signore – Ecco, ti ho disegnato sulle palme delle mie mani”.

Oggi mi vergogno un po’ per aver riportato quella frase. Perché pian piano, a dispetto di tante promesse e con tutte le assicurazioni giurate di ricordi imperituri, mi sto dimenticando di tutti.

Quante volte riconosco un volto, ma non so più dargli un nome! E sento risuonare un nome dall’altro capo del telefono, ma non so più dargli un volto.

Dio, che tristezza! E’ una specie di oltraggio col contagocce che non risparmia né consolidate amicizie, né conoscenze diuturne.

Ma che volete, il tempo passa. Si sfilacciano perfino i lineamenti delle persone più care. Si sgretolano le identità. Nel gioco malinconico delle dissolvenze, le figure umane perdono i contorni. E poiché, come dice il proverbio, chiodo scaccia chiodo, i profili antichi cedono il posto senza pietà ad immagini più fresche. E’ vero che ogni tanto basta un richiamo per far emergere dal sottosuolo della coscienza brandelli di memorie, ma diventa così difficile connetterli tra loro, che non è raro esporsi al pericolo di mortificare o deludere qualcuno.

“Ciao Antonella, chi si rivede! Come stai?”.
“Sto bene. Grazie. Ma non sono Antonella, sono Maria Lucia. Non ti ricordi più?”.
“Già è vero! Ti confondevo con Antonella, la catechista dell’ultimo anno di cresima. Anzi, no: quella si chiamava Barbara, mi pare. Insomma, non importa… Tuo fratello gioca sempre nella squadra di pallavolo? Ah, che smemorato, tu non hai fratelli, ti scambiavo con la Paola”.

Scusami, Maria Lucia, se ti ho deluso.

E scusami anche se stasera, farai una smorfia di delusione, leggendo quella frase sul ricordino di otto anni fa, e non crederai più che io abbia scritto davvero il tuo nome sulle palme delle mie mani.

Però voglio dirti una cosa. Quella frase è vera.

Lo so, ho fatto male io ad appropriarmene, usurpando al Signore una finezza incompatibile con la mia ridicola grossolanità. Non dovevo proprio sottoscriverla, conoscendomi vittima delle più sconcertanti amnesie. Ma se al posto del mio autografo sciagurato, ci metti la firma di Dio, quella frase tornerà a splendere in tutta la sua sovrumana bellezza.

Non ti dimenticherò mai.

E’ lui che, questa frase, la ripete a te, a me, a tutti. Fin da quando siamo stati concepiti nel grembo materno.

Lui che, come dice il profeta Baruch, chiama le stelle per nome, ed esse gli rispondono “eccomi” brillando di gioia! Lui che non deposita negli archivi i nostri volti, ma li sottrae all’usura delle stagioni illuminandoli con la luce dei suoi occhi. Lui che non seppellisce i nostri nomi nel parco delle rimembranze, ma li evoca da uno ad uno dalla massa indistinta delle nebulose e, pronunciandoli, con la passione struggente dell’innamorato, li incide sulle rocce dei colli eterni…

Carissimi, sono convinto, che il credito della gente a tutti i nostri messaggi si misura proprio di qui. Dalla convinzione con cui faremo capire che nel vocabolario di Dio non esistono nomi collettivi. Che le persone, lui non le ama in serie. Che se per la civiltà informatica Gigi, uscito dal manicomio, è niente più che un “soffio” elettronico da immagazzinare nei dischi rigidi dei servizi sociali del comune, per il Signore rimane sempre un principe dell’universo. Che i massacri operati dalle violenze umane trovano sugli occhi di Dio lacrime per ognuno, e non pianti globali. Che nelle fosse comuni delle vittime della guerra, egli si aggira alla ricerca di sembianze inconfondibili su cui lasciare l’impronta di una carezza, e non per collocare piastrine di riconoscimento col numero di matricola. Che l’uccisione di un uomo prima ancora che nasca gli distrugge tra le mani un capolavoro irripetibile, a cui stava per dare l’ultimo tocco. Che l’incupirsi per fame di una sola creatura del Sahel gli dà più angoscia che l’oscurarsi di Sirio o l’affievolirsi delle Pleiadi. E che per i lividi sul volto di Maria, percossa dal marito ubriaco, si turba più di una madre per la febbre del suo unigenito.

Chi è l’uomo perché te ne ricordi?

La risposta forse la si può trovare accartocciata in quel viluppo di panni con cui Bartolo, la notte, si ripara dal freddo sotto il portale della chiesa.

Ai nostri occhi quei panni sembrano cenci che coprono membra fetide di sudore.
Agli occhi di Dio, invece, sono reliquiari che racchiudono frammenti di santità.

***

Dio non è un computer. Non è il grande magazziniere dei nostri nomi. E neppure l’archivista supremo che per ogni uomo allestisce un “dossier” riservato. Non è l’infallibile memorizzatore di fatti e misfatti, che poi, nel giorno del giudizio, egli userà come prove di merito o come capi d’imputazione nei nostri confronti.

Sarebbe veramente banale ridurre Dio al ruolo di controllore dei nostri “sgarri”, o al rango di banchiere dei nostri titoli di credito. Un Dio siffatto, che vesta l’abito del funzionario compiaciuto o che indossi la divisa del gendarme, è quanto di più allucinante si possa pensare.

Forse proprio per allontanare da noi un modo così sacrilego di concepire Dio, il salmo ottavo ci fa sapere che il Signore non solo si ricorda dell’uomo, ma si prende anche premura di lui: “Che cosa è l’uomo perché te ne ricordi e il figlio dell’uomo perché te ne curi?”.

Dio, dunque, si prende cura. E’ provvidente. Non gli basta darci un letto, ma la notte si alza per rimboccarci le coperte.

Ha solecitudine, insomma. E’ inquieto per noi. Si preoccupa. E non solo dell’uomo in generale, ma del singolo.

E’ straordinario tutto questo!

Io gli sto a cuore. Giovanni Paolo II gli sta a cuore. Ma anche Filippo gli sta a cuore. Filippo lo scansano tutti, perché ha l’alito pesante, sembra un cavernicolo, non si lava mai e passa la vita, taciturno, raccogliendo ferri vecchi.

Madre Teresa di Calcutta, premio Nobel per la pace, gli sta a cuore. Ma anche Maddalena gli sta a cuore, lei che di bello ha solo il nome e gli anni, con quel tanfo selvatico che si porta appresso, e con uno sfregio permanente sotto gli occhi, che la deturpa da quando suo padre la gettò nel fuoco bambina.

Gli sta a cuore Nicla, che ha vinto un concorso di fotomodella e sua madre la mostra a tutti sulle copertine dei rotocalchi. Ma gli sta a cuore anche Nella, che ha sposato un marocchino contro la volontà dei parenti, è stata messa fuori di casa, ora ha un bambino e, da più di un anno, l’interno di un’alfaromeo sgangherata le fa da cucina, da soggiorno e da talamo nuziale. Gli sta a cuore il “leader” negro che si batte per il riconoscimento dei diritti umani, parla alla televisione, e concede interviste ai più grandi giornali del mondo. Ma gli sta a cuore anche Sabel, piccolo bambino etiope dal ventre gonfio di fame, che trema come un cerbiatto spaurito, all’interno di una capanna, in attesa della morte.

Gli sta a cuore Jenny, che fa la serva in un “night” per camparsi la vita. Se ne fa carico. Ne segue, cioè, con preoccupazione la sorte. Non chiude occhio per lei. Così come non chiude occhio per quella madre salvadoregna che piange il figlio scomparso. Per quel vecchio vietnamita che vegeta da mesi nella stiva di un “boat people”. Per quel giovane indiano, che si aggira come un ebete tra le arterie di una metropoli europea, ha perso tutto, anche la memoria, e il suo nome ora è segnato solo sull’anagrafe del cielo.

Qualcuno potrebbe osservare che non c’è bisogno del salmo ottavo per sapere che Dio “si prende cura dell’uomo”, dal momento che tutta la Scrittura, dalla prima all’ultima parola, è attraversata da questo annuncio.

Giusto! L’osservazione è pertinente. La portata del messaggio di questo versetto, infatti, non è proclamare la premura di Dio, ma la grandezza dell’uomo. Non consiste nel rivelare la condiscendenza del Creatore, ma nell’esaltare il prestigio della creatura. Non si riduce a glorificare la tenerezza divina per ogni volto umano, ma punta a mettere in luce il fascino di questo volto, che riesce a stregare perfino il cuore di Dio: “Che cosa è l’uomo perché te ne ricordi e il figlio dell’uomo perché te ne curi?”

Un amico ateo, che avevo condotto con me al rito della professione religiosa di Francesca, una splendida ragazza di vent’anni che ognuno avrebbe voluto per sé come sposa, al ritorno mi disse in macchina: “Ma che cosa è questo vostro Dio per il quale una ragazza come quella si brucia la vita?”.

Stavo per rispondergli con la stessa domanda a termini invertiti, quando ho visto un vecchio che raspava nel cassettone della spazzatura, e, allora, sostituendo il nome di Francesca, gli ho replicato: “E che cosa è quel miserabile senza nome per il quale, stanne certo, Dio arde d’incredibile amore?”.

Era difficile dare una risposta.

Avrei voluto osservare che, comunque, una risposta l’avremmo potuta trovare nel Vangelo, in quella pagina in cui il Signore per ogni torto subito dal più piccolo uomo della terra, si costituisce parte lesa davanti al tribunale della storia.

Ma mi sono fermato, perché mi ero accorto di aver fuso.
Il cervello, non il motore.

Poi ho ripreso, mormorando all’orecchio del mio amico, rimasto in silenzio, il versetto di un altro salmo: “Il Signore ci ha fatto bere vino da vertigini”.»

Vostro + don Tonino Bello, Vescovo

[ Antologia degli Scritti, Vol. 3, pg. 187-192 ]

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